Ieri sera, mentre cercavo di avere qualche informazione in più a proposito di ciò che era accaduto a Roma prima di Fiorentina-Napoli e mentre saltavo da un canale televisivo ad un sito web, approdando così a una quantità indefinibile di versioni diverse dei fatti, pensavo a quanti argomenti ci fossero per un editoriale.
La violenza, certo. La violenza negli stadi, o fuori dai medesimi. Che andrebbe analizzata con consapevolezza. Il fenomeno ultras. I video degli scontri, i pestaggi. Poi addirittura gli spari.
Il giornalismo, poi. Perché sarebbe così facile attenersi ai fatti senza tentare voli pindarici e fantasiosi. Aspettare il comunicato della questura, o magari recarsi – come alcuni hanno fatto – sul posto. Attendere ad associare le violenze alla partita, poi essere in grado di fare i distinguo e di raccontare la storia indipendentemente dal tifo.
E infatti ci sono anche i tifosi. Ma qui il tifo non c’entra proprio niente, ed è anche inutile mettersi ad attaccare o difendere questa o quella parte, è inutile fare le vittime, è inutile pensare che ci siano dei vessati e dei vessatori.
E ancora, le polemiche. Cosa si dovrebbe fare, con uno stadio stracolmo, se non giocare l’incontro? Non è la retorica dello “spettacolo che deve continuare”, per carità. E’ che il buonsenso fa capire che è peggio non giocare e far defluire il pubblico con le sue brave componenti esasperate e esasperanti (come farli defluire? con che cadenza?) piuttosto che ingoiare il rospo e fare andare avanti lo show.
Gli ultras, ancora. Quello Speziale libero, quelle immagini di “trattativa” fra le forze dell’ordine e i tifosi.
E quelli che aboliamo il calcio, come se si proponesse di chiudere le strade per impedire agli imbecilli di guidare come se fossero loro i padroni delle medesime.
Insomma, la quantità di tematiche dimostra come sia complesso il discorso e di quanto sia complessa anche la sua (ri)costruzione mediatica.
Poi, mentre Alessandra Amoroso (una che di costruzioni mediatiche sa qualcosa, anche se fa solo la cantante: viene da un talent show) canta l’inno di Mameli (fischiato, com’era già successo in passato. Altra questione che fa discutere e su cui si potrebbe dissertare), ecco l’immagine che in qualche modo risolve tutto.
E’ un corto circuito, un’immagine “facile” (che proponiamo subito sul nostro Facebook). E può anche far tacciare di ipocrisia. Tant’è, guardateli quei due bambini: uno ha sciarpa e maglietta della Fiorentina, uno sciarpa e maglietta del Napoli. Cantano insieme l’inno di Mameli. Sono avversari eppure possono tifare a pochi centimetri di distanza, senza che succeda nulla – del resto, pure alla semifinale di Europa League allo Juventus Stadium, per dire, c’erano tifosi del Benfica immersi nella marea bianconera; sono bambini, quindi inteneriscono a prescindere perché sono, universalmente, simbolo di innocenza. P
E sono, perdonate la banalizzazione e il corto circuito, appunto, l’immagine dello sport che si vorrebbe poter raccontare.
Che poi, è ovvio che il tifo sia anche altro: sfottò, agonismo, avversità. Lo sport sublima e incarna pulsioni ancestrali, e con esso il tifo, appunto. Ma un conto è cantare, sostenere i beniamini, avversare con cori e a parole l’avversario. Un altro è la violenza.
Quindi, viva la banalità, viva l’immagine dei due bambini che cantano insieme, avversari.
Anche se a qualcuno potranno sembrare, anche loro come una certa ormai celeberrima banana, un’operazione di marketing.
Ben venga anche il marketing – volontario o involontario che sia – se veicola qualcosa di buono. A volte è più ipocrita arroccarsi per forza di cose su posizioni “altre” invece di limitarsi a riconoscere l’evidente, la potenza di un’immagine e di quel che evoca.
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